Opera postuma e dolorosamente
Long Day’s Journey into Night, qui proposto nella traduzione di Bruno Fonzi, è ambientato nella casa dei Tyrone, nel Connecticut, nell’agosto 1912, e si svolge nell’arco di un’intera giornata, affrontando i temi della dipendenza, della nostalgia, della disperazione e del senso di colpa all’interno della famiglia, mettendo a confronto quattro diversi fallimenti esistenziali. Il padre James è un attore sul viale del tramonto, la moglie Mary una donna rovinata dall’abuso di morfina, il figlio James Jr. un alcolista disadattato. Il nucleo famigliare si sgretola sotto gli occhi del figlio minore Edmund, tornato a casa dopo un’esperienza da marinaio con l’ambizione di diventare scrittore.
«Ho scelto il capolavoro di O’Neill – racconta Arturo Cirillo – per concludere la trilogia americana affrontata con il Teatro Menotti di Milano, nata qualche anno fa da un desiderio di un incontro scenico tra me e Milvia Marigliano. Dopo i fortunati “Zoo di vetro” di Williams e “Chi ha paura di Virginia Woolf?” di Albee, ci confrontiamo con un altro grande drammaturgo statunitense. È sempre la famiglia quella che si mette in scena, come se il grande sogno americano non potesse se non partire da lì, dove tutto ha inizio e dove tutto a volte si conclude. Una lunga notte, ancora in compagnia di un fiume di alcol, questa volta con in più anche il senso di una malattia (nel testo tubercolosi, oggi potrebbe essere cancro), e la dipendenza da droghe (nel testo morfina, oggi potrebbe essere anfetamina, cocaina o altro). Come nei due testi già portati in scena, ciò che m’interessa non è tanto uno spaccato americano, per di più in questo caso con personaggi d’origine irlandese, ma la forza dei dialoghi e la possibilità di costruire quattro grandi interpretazioni».
Commenti Recenti